Mercoledì 15 novembre si è tenuta l’inaugurazione della mostra “Il colore delle parole”. L’esposizione, organizzata nell’ambito della Triennale di Milano presso lo spazio espositivo dell’Impluvium, è dedicata alle illustrazioni che negli ultimi anni hanno accompagnato il supplemento de “La Lettura” del quotidiano il “Corriere Della Sera”. Era intenzione del curatore, Gianluigi Colin, suggerire una riflessione sull’arte dell’illustrazione: come lui stesso ci ricorda, illustrazione è termine etimologicamente connesso ad “illuminare” e significa, dunque, dotare di luce, rendere comprensibile alla vista, interpretare. Ed è ciò che si propone di fare un illustratore, rispetto a un testo letterario.
Ora, tra i 49 artisti partecipanti all’esposizione figura Antonello Silverini, l’illustratore romano invitato anche lui a esporre gli originali di alcune tavole pubblicate nel 2014 ne “La Lettura” e dedicate ad alcuni classici della letteratura italiana ed internazionale. Cogliamo l’occasione per concentrarci su Silverini, dato che l’artista è stato fatto, molto recentemente, oggetto di attenzione da parte di Carmelo Occhipinti, professore di Storia della critica d’arte di Roma Tor Vergata che ha pubblicato un libretto intitolato Antonello Silverini. Quello che si vede, per la collana Monografie di Horti Hesperidum di UniversItalia.
“Silverini vuole riconciliarci con la tradizione, con la cultura, con la letteratura, con la storia: la provocazione non gli interessa più. Tant’è che nelle deformazioni dei suoi ritratti ottenute per lo più in digitale, non ritroviamo effetti ributtanti, ma neppure caricaturali”.
Le parole di Occhipinti che commentano alcune delle tavole dell’artista poi presentate in mostra, e già riprodotte in appendice al volumetto, aiutano soprattutto a chiarire il modus operandi di Silverini. Le tavole per l’inserto letterario del “Corriere della Sera” sono tutte realizzate secondo una modalità precisa: sono dei ritratti di grandi autori del passato resi attraverso la tecnica del foto-collage, ottenuto giustapponendo pezzi di vecchi giornali o fotografie. L’atto di riesumare vecchie immagini d’epoca e agire sulle stesse permette all’artista di ragionare sulle antiche figurazioni e sul loro significato di partenza, elaborando poi una nuova figurazione che, però, finisce per caricarsi di significati completamente rinnovati, già solo per via del fatto che l’artista utilizza gli strumenti digitali. L’autore dimostra una grandissima padronanza del digitale, riuscendo sapientemente a combinare disegno e grafica. “Gli illustratori mi considerano troppo artista, gli artisti troppo illustratore!” sostiene lui stesso, perfettamente consapevole di una propria indole un po’ Dadaista, che lo porta al continuo “riutilizzo” di materiali iconografici tratti anche dal web, spesso presentati secondo un ordine alogico e apparentemente casuale.
Ogni sua tavola pare voglia suggerire uno sguardo sul mondo interiore dei protagonisti delle illustrazioni. Ma i ritratti sono tutti riconoscibilissimi: come per esempio nel caso di Marcel Proust, che tiene in una mano un pennino e nell’altra una conchiglia che ha la stessa forma della famosa madeleine che l’autore inzuppava nelle sue bevande calde; la figura è intenta a scrivere su un libro chiuso, completamente giallo con un buco al centro che pare risucchiare una clessidra e delle ninfee postevi sopra; per non parlare poi degli altri piccoli, ma indicativi particolari: le gambe di donna che escono dalle pagine del libro come fossero un segnalibro, il filtrino utilizzato del thé, l’orologio da taschino o la piccola finestra alla sinistra del protagonista. Altrettanto riconoscibile il ritratto di Franz Kafka: che si presenta come un ometto seduto come un bambino, dentro una piccola e decorata casa-giocattolo, affiancata da un grosso scarafaggio, mentre legge le pagine di un TIME con il suo stesso volto stampato sulle due metà della copertina in fiamme. Per non parlare dell’espressione di Camille Paglia che fa capolino da un ovale con una lattina dei pelati Campbell infilata “in testa”, la stessa utilizzata da Andy Wahrol nelle sue opere, posta in quel modo assurdo quasi a voler richiamare il sesto quadro del film muto Le Voyages dans la lune di Georges Méliès con il famoso razzo che si schianta sull'occhio della luna. La smorfia della sociologa femminista americana è inconfondibile, ma viene addolcita da un pizzico di rosso imposto come una parrucca sulla testa forzatamente ovale della donna, lo stesso rosso tanto amato da Silverini e diventato sette anni prima una sorta di firma d’autore: basti ricordare Ofelia, la tavola realizzata per la copertina del libro Deus Irae di Philippe Dick.
Silverini ci offre non solo ritratti di personaggi famosi facilmente riconoscibili, ma ci invita a stabilire con essi un rapporto particolarmente intimo, familiare. In questo modo Silverini spoglia i suoi personaggi di ogni aura di solennità e di autorevolezza, che spesso è causa dello scarso interesse dei giovani oggi nei confronti dei classici. Le tavole di Silverini anzi incuriosiscono, invogliano a riavvicinarci ai classici facendo sentire lo spettatore vicino al loro mondo.
Come ribadisce Occhipinti, l’artista riesce a indurci a una vera “riconciliazione con la tradizione”. I volti di Silverini, così buffi ed eccentrici, non sono quindi provocazioni bensì un’occasione di tornare a vedere con occhi curiosi il mondo che ci circonda e soprattutto il passato di cui non possiamo scordarci.
“La vera scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel vederli con occhi nuovi” ( Marcel Proust)